Steven Spielberg (Steven Allan Spielberg) è un attore statunitense, regista, creatore, produttore, produttore esecutivo, scrittore, sceneggiatore, montatore, è nato il 18 dicembre 1946 a Cincinnati, Ohio (USA). Steven Spielberg ha oggi 78 anni ed è del segno zodiacale Sagittario.
Il regista più famoso e ricco del cinema dei nostri giorni. Ha sempre unito nella sua carriera impegno e disimpegno in un riuscito cocktail che ha accompagnato tutta la sua carriera. Spielberg è moderno favolista che ha saputo raccontare paure e sogni infantili e, utilizzando le più moderne tecnologie, ha diretto gli attori più famosi di Hollywood riuscendo quasi sempre a ottenerne il meglio. Ha soprattutto raccontato storie, tante storie. I suoi film sono sempre stati sinonimi di successo, o quanto meno hanno generato attese spasmodiche tanto da farlo divenire il re incontrastato delle estati americane, periodo nel quale gli studios mettono sul mercato i loro gioielli. Spielberg, dopo l'inizio sperimentale con Duel (1971), ha visto quasi subito arridergli la fortuna al botteghino grazie a film campioni d'incasso come Lo squalo (1975), Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977) (lo stesso anno in cui è uscito Guerre stellari dell'amico Lucas), I predatori dell'arca perduta (1981), che ha impresso nell'immaginario collettivo la figura dell'archeologo-avventuriero Indiana Jones consacrando definitivamente Harrison Ford come star mondiale, ed E.T. (1982), forse il suo film più personale e riuscito, almeno per quel che concerne questa prima fase della carriera. A metà degli anni Ottanta, onusto di successi commerciali ma a secco di premi, Spielberg ha avviato un percorso cinematografico, diverso, più maturo, complesso e soprattutto attento a temi di carattere sociale e civile con risultati più o meno riuscinti come Il colore viola (1985 - più - o L'impero del sole (1987) - meno - che gli hanno permesso di non essere più identificato solo come creatore di pellicole fantastiche di intrattenimento. Gli anni Novanta hanno accentuato questa dicotomia: da un lato Spielberg continuava a girare film leggeri come Hook (1991) e Jurassic park (1997), dall'altro produceva film impegnati e di grande successo come Schindler list (1993), Amistad (1997) e Salvate il soldato Ryan (1999). Nella sua opera ultima, A.I. Intelligenza artificiale (2001), il connubio tra queste due anime è divenuto palese e, nonostante il risultato sia stato molto discusso e criticato, anche a causa dell'ombra di Kubrick che giganteggiava alle sue spalle, Spielberg ha dimostrato ancora una volta la sua innata versatilità.
Da ricorcare infine la sua attività di produttore, grazie alla Amblin prima e alla Dreamworks ora, che ha il grande merito di lanciare molti suoi adepti, alcuni dei quali, Robert Zemeckis in testa, oggi possono vantarsi di aver quasi superato il maestro.
Steven Spielberg è il regista-produttore-inventore di storie più fortunato (nel senso “di maggior successo”, perché non di fortuna si tratta ma di intelligenza) della storia del cinema. Si può non amare Jurassic Park (1993), il più grande incasso di tutti i tempi, e trovarlo un baraccone rumoroso, ma bisogna inchinarsi davanti alla sapienza di un uomo di spettacolo che nello stesso anno tiFa fuori, dalla stessa factory e dalla stessa mente, anche un film emozionante e importante come Schindler’s List - La lista di Schindler (1993), l’unico fino a oggi che sia riuscito a mettere un pubblico con tendenza all’amnesia storica, cioè il pubblico americano, davanti alla tragedia dell’Olocausto.
Spielberg è un adulto che continua a regalarsi con assoluta libertà i suoi sogni di ragazzino, i giocattoli mobili e i film che gli sarebbe piaciuto vedere durante la sua fortunata infanzia. Figlio di un ingegnere elettronico esperto di computer, il piccolo Steven ha girato i suoi primi filmini in super-8 con la cinepresa di papà durante gli anni del liceo passati a Phoenix, Arizona. Tra questi Spielberg ama ricordare Firelight, un “filmone” di ventun ore che anticipava i temi di Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977). Amblin’, il “corto” molto premiato che girò quando era studente di letteratura inglese al California State College, fu distribuito assieme a Love Story. Poi dalla televisione, dove rivelò tutta la sua bravura, il salto al vero cinema passò attraverso Duel (1971), un “movie-of-the-week” della ABC, che divenne - meritatamente - un successo internazionale, portando sulle strade dell’America contemporanea il mito dell’uomo comune attaccato dalle inspiegabili forze del male.
Anche Sugarland Express (1974) si svolgeva “on the road”, raccontando con animo populista e occhio allo spettacolo popolare la sfida tra gli affetti privati (la mamma Goldie Hawn che vuole a tutti i costi il suo figlioletto) contro il meccanismo della legge. Ma il primo - e più furbo, e meno personale - grande successo di Spielberg è stato Lo squalo (1975), una rilettura pop del mito di Moby Dick che lo ha lanciato nel firmamento delle indistruttibili fortune cinematografiche.
Dopo Lo squalo Spielberg si è potuto concedere tutti i giochi, le avventure e i revival che desiderava - anche perché quel tutto era nutrito di un originalissimo senso dell’invenzione cinematografica: la fantascienza mistica di Incontri ravvicinati del terzo tipo, la satira storica di1941 - Allarme a Hollywood (1979), da rivalutare, le avventure del ciclo di Indiana Jones, la fantascienza vista dai ragazzini di E. T. (1982), il doloroso romanzo di formazione di L’impero del sole (1987), uno dei film più belli di Spielberg, dal libro di J.G. Ballard, e uno dei meno fortunati.
Fortuna che, in questa cavalcata di successi, qualche piccolo errore l’ha fatto anche lui: Il colore viola (1985), Always - Per sempre (1989), che riesce tuttavia a straziare con il sentimento della perdita delle persone amate, Hook - Capitan Uncino (1991), che nella confusione scenografica e drammaturgica lascia tuttavia un senso di nostalgia per la libertà dell’infanzia. Ma tra i successi di questo giovanissimo tycoon perennemente alla ricerca del nuovo attraverso vecchie fantasie ed emozioni vanno messi anche i film che ha prodotto: da Chiamami aquila (1981) di Michael Apted (una bellissima storia d’amore “libero”) a Gremlins (1984) di Joe Dante, da Ritorno al futuro I, II e III (1985, ‘89, ‘90) a Chi ha incastrato Roger Rabbit (1988), questi ultimi tutti di Robert Zemeckis.
Da Irene Bignardi, Il declino dell’impero americano, Feltrinelli, Milano, 1996
È un regista-azienda, il cui valore si misura sul metro degli incassi: caso unico e coerente, occupa un posto privilegiato nell'industria del cinema statunitense. Figlio di un ingegnere elettronico e di una pianista, passa da una provincia all'altra (New Jersey, Phoenix) prima di stabilirsi in California dove mette a frutto la sua passione per il cinema. Lavora a lungo per la televisione, ed è lì che compie la sua sola infrazione (a non considerare il tardo Schindler's List - La lista di Schindler, 1993, nel quale si inchina - come autore e come ebreo - davanti alle vittime dell'Olocausto) realizzando quell'angosciante sfida fra un uomo e un mostro (rappresentato da un enorme camion) che fin dal titolo - Duel (1971) - rivela la natura di una società oppressiva cui l'uomo può resistere solo con l'astuzia dell'intelligenza. Ha 24 anni, l'esordiente cineasta.
Il resto è sistematica ricerca del successo economico. Dopo una esercitazione tecnica di ottimo livello (Sugarland Express, 1974), imbastisce con poco più di 8 milioni di dollari l'impresa di Lo squalo (1975) che frutterà, solo sul mercato americano, 130 milioni. Analoghi risultati ottiene con la graziosa favoletta Incontri ravvicinati del terzo tipo (1977), dove perfeziona lo sfruttamento degli effetti speciali forniti dalla società Industrial Light and Magic, da lui gestita insieme a George Lucas, e con I predatori dell'arca perduta (1981), un investimento di 20 milioni di dollari che ne frutta 116 sul mercato interno. L'anno dopo E. T. L'extraterrestre, effetti speciali e congegni raffinati di Carlo Rambaldi, fa salire gli incassi a quota 228 milioni. Qualche scivolata inevitabile a parte (quando cerca goffamente di uscire dal seminato), l'imprenditore continua la sua marcia, ora esponendosi come regista (con il seguito di I predatori dell'arca perduta, con Il colore viola, 1985, con il meno fortunato L'impero del sole, 1987, film gonfio e fastoso ma non privo di forza) ora associandosi ad altri (la Disney, o registi come Robert Zemeckis e Joe Dante). Il suo capolavoro - mirabile fusione di capitali, tecnologia elettronica, inventiva «infantile»: Spielberg è tutto qui - ha nome Jurassic Park (1993). In 20 giorni raccoglie in USA 200 milioni di dollari.
Fernaldo di Giammatteo, Dizionario del cinema. Cento grandi registi,
Roma, Newton Compton, 1995
Spielberg ne L'impero del sole si avvicina alla storia con lo stupore di chi vuole guardarsi indietro a scrutare nelle pieghe del possibile per rintracciare i percorsi della favola e del mito. Così come era accaduto in 1941, si ritrova immesso negli abissi di un paesaggio 'inaudito', dove più che la visione conta il sentire dell'oblio, con le immagini dell'infanzia che restituiscono l'ampiezza di un orizzonte oceanico, e il brivido che si ha immaginando di affacciarsi sull'atlantico, nel luogo di congiunzione di due continenti. Tutti e due questi film si traducono nella visione della propria ipseitìa, danno il senso apocalittico della visione, in un trasalimento che fa dello spazio il tempo del racconto, mentre la memoria ricostruisce sensazioni e pulsioni, in un disperato legarsi alla vita, nella testimonianza del divenire. In L'Impero del sole la guerra, gli anni dal 1941 al 1945, Shangai, l'invasione giapponese, la vita in un campo di concentramento offrono a Spielberg materia per una metafora sull'esistente, sul difficile crescere di un bambino che vediamo mutare sotto i nostri occhi, cambiare in carattere e impegno, sino alla sua trasformazione completa. La messa tra parentesi del periodo bellico diviene la ragione della sua crescita, l'epochè non e più un atteggiamento filosofico, ne un atteggiamento intenzionale, ma il dato di fatto, la sua condizione. È l'"oltre" della sua radicale alterità, il possibile puro per continuare ad essere. L'occhio della mdp ricostruisce la sensazione della Shangai 1941 di questa città meravigliosa, in quegli anni della memoria, fa rivivere il fascino -delle sue strade, le ville dei ricchi diplomatici occidentali, il fiume, le barche. È un paesaggio mentale, un paesaggio dell'emozione, che accoglie questa natura non indifferente e la rende strettamente legata allo sguardo del giovane protagonista. È una immersione nel mito, in cui anche gli avvenimenti negativi conservano il fascino del memorabile, dove il passaggio dal prima al dopo è semanticamente avvertito. I giorni dell'ira, dell'invasione, della folla incredibile che straripa come un fiume in piena, che devasta e distrugge, hanno uno spessore soggettivo, sono la rottura di un incanto che sembrava immutabile: e in quell'attimo prolungato in cui si rovesciano i segni significanti, padre e madre e figlio si perdono come in un vortice.
Spielberg rende fisicamente questo passaggio, questo tremore delle cose, questo tempo arrestato in cui si avverte il rumore dell'invasione come sottofondo, il silenzio della solitudine che isola il ragazzo, l'orrore del vuoto, delle strade immense, della folla indifferente, nemica. Il giovane 'piccolo principe' entra in questo clima disperso, con il suo sguardo aristocratico, capisce e non capisce la realtà che lo circonda, l'estraneità di un luogo mutato che l'immaginario di Spielberg rende attraverso la forma del niente, il non-luogo, questo mondo quotidiano di gesti comuni, che diviene altro, privo di senso. Il ragazzo impara a vivere nel campo di concentramento, impara il furto, la scaltrezza, l'abilità e il cinismo; l'indifferenza, il silenzio e le grandi emozioni. La morte è vista come una realtà necessaria. La respirazione forzata bocca a bocca, applicata a una donna in coma, gli dà l'emozione di onnipotenza; ma è solo una illusione. Come pure sarà illusione, alla fine, il disperato tentativo di ridare la vita a un compagno di giochi, che voleva volare. Tutto e cinema, tutto e visto, sentito, sofferto come in una memoria di sé, con la voce e il suono, la phone e l'immagine; il senso della favola si accompagna con il male del crescere, il 'piccolo principe' si fa uomo, pur mantenendo gli impulsi più irrazionali del gioco, le gioie improvvise, l'entusiasmo per il volo degli uomini. Gli aerei sono la grande favola della sua vita, il sogno di Icaro; sono la materializzazione dell'unico momento in cui trionfa l'esaltazione e la spensieratezza. Il grande stadio pieno di cose rastrellate, di automobili, quadri, statue, oggetti assemblati, sembra il regno di Kane nel castello di Kubla Kahn. La citazione immaginifica del film di Welles conferma il grande amore di Spielberg per il cinema, il nutrimento della sua scrittura filmica, il rimando continuo a forme e figure, come la bicicletta con cui il ragazzo corre, all'inizio per le vie di Shangai e poi per i percorsi labirintici del campo di concentramento, esplicito richiamo al suo E. T. segno della 'realtà' della favola, proiettata nel Mito del tempo. Quando i genitori ritroveranno il piccolo uomo, il 'piccolo principe' non c'e più; esiste un altro individuo, intessuto di altri sogni, di altre attese, di altre esperienze; e questa alterità e il segno dell'idea che trasforma. I suoi occhi hanno guardato il sole, hanno visto orrore, disperazione, vita e morte, hanno visto la luce bianca della bomba di Hiroshima e di Nagasachi. Hanno visto l'orrore e il sogno e forse si sono spenti nel fuoco accecante di Icaro.
Anche con Always Spielberg continua a testimoniare questo suo amore per il cinema classico, il cinema della sua infanzia di spettatore, il cinema che ha inventato i suoi sogni, ed è divenuto la grande icona della sua immaginazione. Victor Fleming, Tay Garnett, Howard Hawks hanno tracciato le linee che legano l'avventura al melodramma, i racconti di terra a quelli di cielo, l'amore all'impossibilità di essere amati, la gioia alla malinconia. Sulle traccia di Joe il pilota di Fleming, Spielberg insegue il sogno di una impossibile felicità, trasportandosi in una zona metafisica dove l'ombra si materializza in un fantasma in lotta con l'Angelo. Ad occhi aperti il mondo dei vivi si confonde con quello dei morti, il pilota che vola nei cieli per spegnere le fiamme dei grandi incendi boschivi entra nel territorio del 'volo di notte', ritrovandosi in una solitudine sospesa, nel vuoto. Le sequenze del volo hanno una patina d'oro-che esprime simultaneamente felicità e paura, lasciano intuire che il dramma sta per compiersi proprio nel momento di massima ebbrezza. Spielberg riesce a esprimere questo senso panico nell'incontro nell'hangar, dove esplodono l'amore, la tenerezza e l'inquietudine di una vita d'attesa. Quando Dreyfuss parte per la sua ultima missione è come se il presentimento della sua morte si materializzasse, guidando il suo ultimo volo nello splendore di un paesaggio inesistente. Ancora una volta come in Saint-Exupéry, anche in Spielberg si ritrova lo stesso fascinoso respiro di perdersi in un territorio sconosciuto e le sequenze del volo sembrano esaltare il senso di felicità che precede la morte.
Dall'aldilà Dreyfuss osserva distaccato la vita terrena ma perde il senso della realtà, ama e crede ancora di poter essere amato. Divenuto incorporeo e invisibile, insegue in una sorta di amor fou, un fantasma d'amore e vive, nella sua immaterialità, la vita che aveva sognato, in un mondo dove regna il silenzio. Ma il silenzio è una alternativa. Oltre la linea di demarcazione, quello che non può essere detto deve essere affidato al pensiero. Mentalmente immagina di parlare, ballare, vivere ancora e di poter essere utile agli altri; e lo fa infiltrandosi nella vita che ormai non gli appartiene, salvando la donna aviatrice da un analogo incidente mortale. In queste sequenze di chiusura, si ritrova la grande avventura, l'epica dei sentimenti; il volo del piccolo aereo si immerge nello spazio mentale di una astrazione e inventa l'amore impossibile, celando l'emozione in un finale in cui, come nell'Ultimo metro di Truffaut, si ritrovano unite joie et souffrance. Sembra una elegia dello sguardo perduto, un segno poetico che si riannoda con la più recente esperienza di Spielberg Minority Report e Prova a prendermi, corpo sognante di un eterno fanciullo e inserto di malinconiche giovani veggenti, cinema che rivive mentalmente in uno spazio dimensionale a margine dei gesti mancati, dei lapsus visivi di quell'occhio 'pineale' che Bataille riconosceva nella vertigine dei propri fantasmi. Un cinema dove ritorna il puro pensiero, dove la forma procede in una linea oculare e dove l'assalto al cielo, nella luce di Icaro, sommuove, in una fuga nel tempo, l'armonia del discorso. Così lo sguardo di Spielberg dopo essersi inoltrato nella Storia con l'irruzione violenta attraverso gli orrori della Shoah (Schindler's List) rientra nella finzione, nella verità come apparenza, armonia di uno sguardo dell'oltre.
Da Ritratti Autoritratti, Bulzoni Editore, Roma, 2006
È uno dei soci principali dei DreamWorks Studios. Insieme a Stacey Snider, si è unito al Reliance Anil Dhirubhai Ambani Group nel 2008 per dare vita alla nuova DreamWorks, che è una continuazione dei DreamWorks Studios fondati da lui, Jeffrey Katzenberg e David Geffen nel 1994. Nel corso della sua storia, la DreamWorks ha goduto di un grande successo di critica e pubblico, realizzando alcuni dei film più noti degli ultimi anni, fra cui tre premi Oscar consecutivi: American Beauty, Gladiator e A Beautiful Mind (gli ultimi due in coproduzione con la Universal). Hanno portato sullo schermo successi quali Transformers, The Ring, Minority Report, Catch Me If You Can (Prova a prendermi) e Meet the Parents (Ti presento i miei) e il suo sequel.
Tra i filmmakers più noti e influenti dell’industria, Spielberg ha diretto e prodotto anche a livello esecutivo, alcuni dei film più importanti di tutti i tempi fra cui Jurassic Park e E.T. The Extra-Terrestrial (ET – l’extraterrestre). Fra la miriade di onorificenze, è stato tre volte premio Oscar, aggiudicandosi due statuette come Migliore Regia e Miglior Film per Schindler’s List e un terzo Oscar per la Migliore Regia di Saving Private Ryan (Salvate il Soldato Ryan).
Quest’ultimo film, una coproduzione DreamWorks/Paramount interpretata da Tom Hanks, è stato campione di incassi negli USA nel 1998 nonché uno dei film più premiati dell’anno, con cinque Oscar (fra cui uno per Spielberg come Miglior Regista) e due Golden Globe Award come Miglior Film (Drammatico) e Migliore Regia. Spielberg è stato inoltre premiato dai suoi colleghi con il Directors Guild of America Award (DGA), e ha condiviso con gli altri produttori del film il Darryl F. Zanuck Award del Producers Guild of America (PGA) per il Produttore dell’Anno. Quell’anno il PGA ha consegnato a Spielberg il prestigioso Milestone Award per il suo storico contributo all’industria del cinema.
Saving Private Ryan (Salvate il soldato Ryan) ha vinto inoltre il premio di Miglior Film delle associazioni dei critici di New York, Los Angeles, Chicago, Toronto, British e della Broadcast Film Critics Association, mentre i critici di Los Angeles, Toronto e della Broadcast Film Critics hanno nominato Spielberg Miglior Regista.
Nel 1994 Spielberg ha vinto due Academy Awards come Migliore Regia e Miglior Film per Schindler’s List, che ha ricevuto un totale di sette statuette. Il film ha ottenuto anche riconoscimenti come Miglior Film da parte delle maggiori organizzazioni di critica oltre a sette premi BAFTA, fra cui due per Spielberg. Ha vinto inoltre il Golden Globe Award e ha ricevuto un secondo DGA Award.
Spielberg ha vinto il suo primo DGA Award per The Color Purple (Il colore viola). E’ stato inoltre nominato all’Oscar come Miglior Regista per Munich, E.T. The Extra-Terrestrial (E.T. L’estraterrestre), Raiders of the Lost Ark (I predatori dell’Arca perduta) e Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo). Inoltre è stato nominato al DGA Award sia per i film menzionati che per Empire of the Sun (L’impero del sole), Jaws (Lo squalo) e Amistad. Spielberg vanta un totale di dieci nomination al DGA Award, più di qualsiasi altro regista della storia e nel 2000 ha ricevuto il Premio alla Carriera della DGA. E’ stato inoltre premiato con il Lifetime Achievement Award da parte dell’American Film Institute, con il prestigioso Irving G. Thalberg Award della Academy of Motion Picture Arts and Sciences e con il Kennedy Center Honor.
Spielberg di recente ha ultimato la fotografia principale del film in 3D The Adventures of Tintin: Secret of the Unicorn interpretato da Jamie Bell e Daniel Craig. Prodotto da Spielberg, Peter Jackson e Kathleen Kennedy, Tintin è il primo di una serie di film in 3D basati sull’icona del fumetto creata da Georges Remi, più noto al mondo con il suo nome d’arte Hergé; il film sarà distribuito nel 2011. Altri recenti film di Spielberg comprendono Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo (2008) che ha incassato oltre 780 milioni di dollari. Nell’estate del 2007 è stato produttore esecutivo di Transformers, una coproduzione DreamWorks Pictures e Paramount Pictures. Il film ha incassato oltre 708 milioni di dollari nel mondo. Nel 2006 Spielberg ha prodotto due film con il regista/produttore Clint Eastwood -Flags of Our Fathers, nominato a due Oscar, e Letters From Iwo Jima (Lettere da Iwo Jima) che è stato nominato a quattro Oscar fra cui come Miglior Film. Nel 2005 Spielberg ha diretto due film - War of the Worlds (La guerra dei mondi) e Munich – ed è stato il produttore di Memoirs of a Geisha (Memorie di una geisha), War of the Worlds (La guerra dei mondi) presentava Tom Cruise in questa rivisitazione del romanzo futurista di
H.G. Wells. Munich, il film che racconta gli eventi scaturiti dal massacro degli 11 atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco di Baviera del 1972, ha ricevuto cinque nomination all’Oscar anche come Miglior Film e Miglior Regia per Spielberg. La coproduzione Universal/DreamWorks presenta Eric Bana, Daniel Craig, e Geoffrey Rush. Memoirs of a Geisha (Memorie di una geisha) diretto da Rob Marshall e basato sul best-seller di Arthur Golden, ha vinto tre Oscar per la Migliore Fotografia, la Migliore Direzione Artistica e i Migliori Costumi. Spielberg ha inoltre scritto, diretto e prodotto A.I. (Intelligenza artificiale), nato dalla visione del grande regista Stanley Kubrick. Nel 2000 Spielberg ha vinto lo Stanley Kubrick Brittania Award per Excellence in Film, da parte dei BAFTA - Los Angeles.
Nato il 18 dicembre 1946 a Cincinnati, nell’Ohio, Spielberg è cresciuto nei sobborghi di Haddonfield, nel New Jersey e a Scottsdale, in Arizona. Ha esordito girando film amatoriali quando era ancora un adolescente e in seguito ha studiato presso la California State University di Long Beach. Nel 1969 il suo cortometraggio di 22 minuti dal titolo Amblin è stato presentato all’Atlanta Film Festival, affermandosi subito dopo come il regista più giovane ad aver mai firmato un contratto a lungo termine con un grande studio di Hollywood.
Quattro anni dopo ha diretto il film per la TV, ricco di suspense, Duel, che lo ha imposto all’attenzione di pubblico e critica. Ha debuttato nella regia di un film a soggetto con The Sugarland Express, tratto da una sua sceneggiatura. Altri film da lui diretti nei primi anni comprendono Always, Hook e i sequel di Raiders of the Lost Ark (I predatori dell’arca perduta): Indiana Jones and the Temple of Doom (Indiana Jones e il tempio maledetto) e Indiana Jones and the Last Crusade (Indiana Jones e l’ultima crociata).
Nel 1984 Spielberg ha fondato la sua società di produzione, la Amblin Entertainment, con la quale è stato produttore e produttore esecutivo di numerosi grandi successi fra cui Gremlins, Goonies, Back to the Future I, II, and III (Ritorno al futuro 1, 2, e 3), Who Framed Roger Rabbit (Chi ha incastrato Roger Rabbit) An American Tail (Fievel sbarca in America), The Land Before Time (Alla ricerca della valle incantata), The Flintstones, Casper, Twister, The Mask of Zorro (La Maschera di Zorro), Men in Black e Men in Black II. Amblin Entertainment ha inoltre prodotto la serie di grande successo ER insieme alla Warner Bros. TV.
Altri lavori televisivi di Spielberg comprendono la produzione esecutiva insieme a Tom Hanks della premiata miniserie Band of Brothers, per HBO e DreamWorks Television. Basato sull’omonimo libro di Stephen Ambrose, questo progetto sulla seconda guerra mondiale ha vinto sia l’Emmy che il Golden Globe come Migliori Miniserie. Ha vinto l’Emmy nella stessa categoria anche Taken, del 2002, di cui Spielberg è stato produttore esecutivo per la DreamWorks Television e Sci-Fi Channel. Nel 2005 Spielberg e DreamWorks Television si sono uniti alla TNT come produttori esecutivi della serie di 12 ore Into the West, che segue le vicende delle varie generazioni di due famiglie del West americano, una americana e l’altra indiana. Attualmente è il produttore esecutivo, insieme a DreamWorks Television, della serie di successo The United States of Tara in onda su Showtime. La commedia è stata scritta dal premio Oscar Diablo Cody (Juno), e presenta Toni Collette e John Corbett. Spielberg è inoltre il produttore esecutivo di The Pacific, che sarà trasmesso su HBO quest’anno.
Spielberg dedica il suo tempo e le sue risorse a diverse cause umanitarie. L’esperienza da lui vissuta durante la lavorazione di Schindler’s List lo ha indotto a creare la Righteous Persons Foundation, utilizzando tutti i proventi del film. Ha inoltre fondato Survivors of the Shoah Visual History Foundation, in cui sono registrate le testimonianze di circa 52000 sopravvissuti all’Olocausto. Spielberg è stato il produttore esecutivo di The Last Days, il terzo documentario della Shoah Foundation, che ha vinto l’Oscar nel 1999 come Miglior Documentario. Nel 2005 queste testimonianze sono state trasferite alla University of Southern California. Il nuovo Shoah Foundation Institute for Visual History and Education sarà dedicato alla ricerca e allo studio di discipline umanistiche e sociali. Spielberg è inoltre il presidente emerito della Starlight Children’s Foundation, che si occupa di fornire cure pediatriche, risorse tecnologiche e varie forme di intrattenimento ai bambini gravemente malati.
Ricordate Il ponte sul fiume Kwai? C'erano gli inglesi (Alec Guinness), c'erano gli americani (William Holden) e c'erano i giapponesi (Sessue Hayakawa). Esattamente come nell'ultimo film di Steven Spielberg, L'impero del sole. Salvo che qui l'inglese è un fanciullo che, si fa per dire, matura all'esperienza della guerra e del campo di concentramento.
Onusto di Oscar 1958 (sette premi tra cui i principali) Il ponte sul fiume Kwai, tratto da un romanzo di Pierre Boulle, era un kolossal di due ore e mezzo, come quello di Spielberg. Anche L'impero del sole deriva da un romanzo, però fortemente autobiografico. Finora molto apprezzato quale scrittore di fantascienza, J. G. Ballard ha narrato stavolta una vicenda scritta sulla propria pelle. Le iniziali J. G. stanno per James Graharn, e Jim Graham si chiama infatti il protagonista del film.
C'è ancona un altro legame con la vecchia superproduzione di David Lean. Il regista di Passaggio in India, che oggi ha ottant'anni, appena letto il libro di Ballard uscito nel 1984, se ne appassionò al punto di volerlo dirigere personalmente e chiese proprio a Spielberg di produrglielo. Poi le cose andarono altrimenti e Spielberg, che di soldi ne ha moltissimi ma di anni ne ha la metà, ha finito per ereditare il progetto e produrselo per proprio conto. Niente di male, probabilmente Sir David Lean non avrebbe avuto la stessa energia.
In questo trentennio molta acqua è passata sotto Il ponte sul fiume Kwai e molt'altra ne era passata anche in precedenza nella storia del cinema dopo la fine della seconda guerra mondiale, che coincide con la fine dell'impero del sole e del film. Quando Spielberg nasceva (1947) Rossellini descriveva in Germania anno zero la disperazione e il suicidio di un fanciullo tra le macerie di Berlino. Nel 1951 il francese René Clément realizzava Giochi proibiti, nel '52 il giapponese Kaneto Shindo I figli della bomba atomica. Dieci anni dopo il russo Andrei Tarkovsky presentava alla Mostra di Venezia la sua opera prima L'infanzia di Ivan, vincendo un Leone d'oro. Sono tutti titoli - e altri se ne potrebbero aggiungere, dagli italiani Sciuscià e Paisà fino ad Anni Quaranta dell'inglese John Boorman e ad Arrivederci ragazzi del francese Louis Malle - che hanno un tema in comune: l'infanzia di fronte alla guerra, l'innocenza distrutta dall'orrore procurato dagli adulti.
Ora, dovendo fare anche lui un film su un innocente proiettato in una prova cosi devastante, Spielberg non assume affatto il punto di vista dei suoi predecessori e non ha alcuna intenzione di trattare il tema dall'infanzia violentata e uccisa. Forse per originalità, forse per superficialità, certamente per necessità produttiva (un'impresa da 35 milioni di dollari deve offrire spettacolo, avventura e anche un po' di ottimismo). egli vede piuttosto il suo ragazzino, dotato di una vitalità davvero irrefrenabile, uscire dalla tremenda esperienza logorato e sconvolto, ma in fin dei conti «uomo» e, in quanto tale, non perdente, per non dire addirittura vittorioso. Quale differenza da Tarkovsky, a parte la distanza abissale tra i due modi di far cinema oltre che di concepirlo. Il tragico antieroe del film sovietico era totalmente vittima della guerra, era già vecchio prima di poter diventare adulto, era un precocissimo «mostro» agli occhi dei commilitoni maturi come agli occhi dell'autore, che si immedesimava in lui e insieme se ne ritraeva, con la stessa desolala pietà.
Spielberg, invece, non ha problemi nell'identificarsi in Jim, di cui condivide in pieno quel vitalismo irresistibile. Altrettanto disinibito, incosciente e audace come regista, sposa il personaggio quasi autobiograficamente: certo non nel senso di Ballard, nato in effetti a Shanghai nel 1930 e che all'epoca dell'occupazione giapponese aveva l'età del protagonista. L'identificazione di Spielberg è un'altra e anch'essa legittima. L'entusiasmo che Jim dimostra nel film per ogni tipo di velivolo - dagli alianti con cui gioca, agli apparecchi dei kamikaze per cui delira - è "lo stesso entusiasmo che Steven nutriva fin da bambino per la cinepresa e le sue evoluzioni aeree".
La prova è in una delle sequenze più spettacolarmente efficaci, allorché Jim si allontana dalla festa in costume per osservare da vicino un aereo caduto sul prato attorno alla villa, nella zona residenziale in cui abitano i suoi genitori. A un certo punto, guidato dalla curiosità, sale una collinetta e d'improvviso - grazie a un movimento di macchina ardito e fantasioso - si spalanca davanti a lui (e a noi) la visione di un reparto giapponese in armi. Evidentemente esso è pronto a balzare dal nascondiglio per aggredire il cuore della metropoli. Se ne vedranno gli effetti nelle scene magistralmente girate del bombardamento, dell'invasione, dell'evacuazione di Shanghai da parte della folla sbandata e terrorizzata, cinese e straniera. Ma per intanto il brutto incontro di Jim coi soldati sul piede di guerra è presto esorcizzato in un sorriso distensivo e quasi favolistico. Il fanciullo, richiamato dal padre in ansia, riattraversa lentamente il prato e, per il momento, l'avventura si chiude felicemente, nonostante l'indubbia tensione iniziale.
Ciò vale, tutto sommato, per l'intero film. La dimensione della favola e dell'avventura è predominante, a dispetto di tutte le violenze e di tutti gli orrori. È il mondo sognante di Spielberg, il mondo delle immagini cinematografiche elaborate ma non fredde, anzi d'assalto e talvolta geniali, che riemerge sul bagno d'incubo ch'era il romanzo. In un articolo sul supplemento milanese della «Repubblica», ce lo spiegava Goffredo Fofi: «Valga una scena per tutte, ma certo chiarificatrice. Nel finale del romanzo, la bara col cadavere di un bambino scivola lungo il fiume tra merde e rottami; nel film, vediamo al suo posto la valigetta di Jim [...] che si porta via i suoi ricordi, che chiude una parentesi nel rientro alla normalità, pur faticosa, rappresentata dalla ricomposizione immediatamente precedente della sacra famiglia anglosassone [...]». Ciò che nel romanzo, insomma, era un apprendistato alla morte, diventa nel film un apprendistato alla vita. Alla vita da «grande».
Spielberg stesso ha più volte dichiarato di voler crescere, sia pure gradualmente e dolcemente. Il colore viola e, a maggior diritto, L'impero del sole sarebbero quindi le prime tappe di una marcia di avvicinamento alla maturità, a un cinema diverso e più adulto. Un cinema che non rinuncia ancora (e perché, poi, dovrebbe?) alle passioni incantate della fanciullezza e del sogno a occhi aperti, ma nel contempo affronta problemi più gravi e realtà più inquietanti.
Con la sua bicicletta Jim percorre la dimora del suo privilegio immacolato, la residenza di lusso ormai abbandonata e devastata, ma più tardi anche l'inferno collettivo del campo di internamento giapponese per i civili inglesi. Qui c'è un nucleo a gestione americana dove prevalgono affarismo e cinismo come nel film di Billy Wilder Stalag 17, in cui Willian Holden (che sarebbe poi diventato il guastatore del Ponte sul fiume Kwai) impersonava un tipo simile a quello raffigurato qui da John Malkovich. Il ragazzino Jim, cui il piccolo attore esordiente Christian Baie presta una grinta inequivocabilmente britannica, tra lo snobismo del suo ceto originario e la tenerezza della sua età indifesa, si fa subito allievo prontissimo e diligente di questo teppista americano, che lo affascina col suo savoir faire ma finalmente lo delude col suo egoismo di marpione incallito.
Del resto Jim è una spugna che assorbe tutto da tutti, perfino il cerimoniale con cui placare l'aguzzino giapponese, o l'astuzia con cui fregarlo. Dell'ambiente britannico assume invece lo stoicismo, attraverso il febbrile medico incarnato da Nigel Havers che' conoscemmo come atleta in Momenti di gloria, mentre l'età difficile del passaggio all'adolescenza (Jim trascorre ben quattro anni in prigionia) gli suggerisce anche le prime curiosità sessuali, attraverso la spenta e diafana signora nella quale si riconosce appena l'aggressiva Miranda Richardson di Ballando con uno sconosciuto.
Ma l'ammirazione più devota di Jim va costantemente agli aerei, e quindi ai piloti giapponesi che ha sott'occhio e tra i quali si è pure fatto - sempre a distanza - un giovanissimo amico. Più fortunato di lui perché, alla fine, vola sul serio; vola però quando la Bomba è già stata lanciata e la guerra, per i suoi, è ormai perduta. Anzi gli muore addirittura tra le braccia e Jim si dispera di non poterlo resuscitare. Nonostante tutta la sua buona volontà, non è ancora E.T.
Sul desiderio di Spielberg di farsi adulto è lecita qualche riserva. Come cineasta che dispone di un mestiere infallibile, di una tecnologia all'ultimo grido, di un impero produttivo, è adulto da molto tempo. Ma lo è già stato anche nei contenuti. Non era forse terribilmente adulto il suo primo film Duel, girato nel 1971 a ventiquattro anni? Ogni tanto lo rivediamo in televisione, per la quale d'altronde era stato creato. E continua a stimolarci con la sua semplicità e la sua ironia, applicate alla narrazione di un incubo astratto, di una favola metafisica. L'unico riferimento possibile è a un cortometraggio di Dreyer sulla morte per eccesso di velocità, un cortometraggio didattico intitolato E presero il traghetto; e Dreyer è il regista più adulto che si conosca.
La verità è che Spielberg non è prigioniero della sua fanciullezza, bensì della sua grandeur. Non siamo sicuri che per essere «grandi» si debba per forza essere colossali. Anche perché, tra le leggi imprescindibili del colosso di successo, c'è sempre un commento musicale frastornante e alla melassa, senza nemmeno il conforto d'una rnarcetta da fischiettare, come ai tempi del Ponte sul fiume Kwai.
Da Alfabetiere del cinema, a cura di L. Pellizzari, Falsopiano, Alessandria, 2006