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Muore a 84 anni Carla Fracci, regina della danza classica italiana che ha ispirato bambine e bambini.
di Marzia Gandolfi
Come me, molte bambine degli anni Settanta devono la passione per la danza a Carla Fracci. Non importa se 'da grandi' non abbiamo fatto le ballerine, importano il rigore, l'ostinazione e la grazia che ci ha insegnato e che oggi applichiamo a un altro mestiere, il nostro mestiere. Il suo ricamava mondi magici col braccio sollevato come un'ala sopra il capo acconciato di morbide piume, il mio mette insieme parole per dire la meraviglia del suo cigno e di un' étoile che ha raggiunto le stelle. Così mi è apparsa la prima volta in fondo agli anni Settanta e dentro il "Lago dei cigni" di Pëtr Il'c Cajkovskij. Quattro atti indimenticabili e misteriosi la trasformarono da umano in cigno col corollario inevitabile della prova che ogni sposa soprannaturale impone allo sposo, una fedeltà senza riserve, altrimenti le nozze saranno vanificate e cose terribili accadranno. Ma quella sera dal palco del Teatro alla Scala, alla bambina che ero, niente di terribile sarebbe davvero potuto accadere. Nell'abbraccio confortevole dei velluti, le petits rats, così vengono chiamate le piccole allieve della scuola di danza dell'Opéra di Parigi, sognavano tutte con Lei il loro "atto bianco". Forse un giorno saremo come "la Fracci", ci ripetevamo come un mantra, salteremo tutte senza fare più rumore della caduta di un petalo o di una nuvola di polvere.
Da dove veniva quella sua inconcepibile leggerezza? Essenzialmente dalla forza e dall'elasticità di un piede divinamente arcuato che rendeva impercettibile il passaggio dalla mezza punta alla punta e viceversa. Braccia morbide, mani vive, tutto il suo corpo non era che danza, il virtuosismo era trasceso dalla poesia, dall'emozione, dall'ispirazione drammatica. Amorevole e poi giocosa, dolente e poi violenta nella vendetta, Carla Fracci riusciva a rendere travolgente un personaggio che non era che uno stereotipo romantico.
Fanciulla bruna, cresciuta in un milieu modesto, è ammessa alla scuola del Balletto della Scala a nove anni, dove studiò danza sotto la guida di Vera Volkova, che gli permise di beneficiare di una doppia tradizione classica, quella milanese e quella pietroburghese. Entrata nel 1946 nel tempio della danza e diplomata nel 1954, si rivela al pubblico l'anno successivo sostituendo Violette Verdy nella "Cenerentola" di Prokof'ev e avviando così una carriera che ha calcato i maggiori palcoscenici. Carla Fracci ha frequentato e arricchito le sue performance lavorando per le più importanti compagnie del mondo ma è la Scala a conservare per lei un ruolo centrale. Nel 1958 la celebre istituzione milanese l'aveva nominata étoile e interprete d'elezione dei grandi balletti romantici e delle nuove versioni dei classici create da Rudolf Nureyev, a cui si accompagnava in scena e lungo le linee morbide di un'arabesque.
Essenziale come una scultura di Giacometti, la sua silhouette filiforme e sempre vestita di bianco ha interpretato più di duecento personaggi e ha ispirato artisti che per lei inventano nuove coreografie: da "Sebastian" di Luciana Novaro a "La Strada" di Nino Rota e Mario Pistoni, da "Pelléas et Mélisande" di Beppe Menegatti a "Chéri" di Roland Petit. Se è soprattutto per la sua Giselle che il mondo la conosce (e celebra), aveva tenuto una masterclass nel mese di gennaio per gli allievi della Scala in occasione della 'ripresa' del celebre balletto, è impossibile ridurre il suo talento a un ruolo soltanto. La Fracci, come la chiamavamo tutti in Italia, è stata tutto ed è stata dappertutto. Teatri d'Opera, arene, scuole, televisione, dove nel 1982 interpreta Giuseppina Strepponi nel Verdi di Renato Castellani, Carla Fracci era un talento eclettico e una donna di grande carattere che lasciò la Scala nel 1963 per l'indipendenza, la volontà di mettersi alla prova con John Cranko o Roland Petit e il desiderio di interpretare personaggi femminili più liberi. Negli anni allenta il corsetto della tradizione infilando a piedi nudi lo slancio di Isadora Duncan per Millicent Hodson. Scultura vivente, l'étoile italiana eredita dalla Duncan un appetito feroce per la vita cercando con un andamento deliberatamente lirico altre vie percorribili, come la direzione del Balletto dell'Arena di Verona (1995-97) e poi del Balletto dell'Opera di Roma nel 2002.
Ambasciatrice di buona volontà della FAO dal 2004, la sua passione andava oltre le tavole del palcoscenico, accogliendo le sfide del cambiamento climatico e della bioenergia, perché i suoi cigni potessero sempre scivolare in acque limpide. Un altro legame di consonanza col suo 'cigno bianco', incarnazione mistica del dualismo cielo-terra. Alla sua Odette, 'melodia acquea' in cui il Principe vede riflessa la parte immortale di sé, Eugenio Montale dedicherà una poesia ("La danzatrice stanca"). Critico musicale per il Corriere della Sera negli anni Settanta, la descrive come figura leggerissima che tornava a ballare dopo essere diventata mamma. I versi del poeta 'sposano' la creatura celeste con la dimensione terrestre, che non ha mai fatto difetto a questa ballerina dal volto delicato e il tono diretto. La regina della danza classica italiana non è mai stata timida riguardo al suo impegno. Non sono mancati i fronti in cui questa signora ribolliva di collera, lasciandosi trasportare come in un valzer di Chopin. Perché Carla Fracci aveva carattere da vendere e da spendere per la causa giusta. Su e giù dal palcoscenico, disegnando lo spazio con gambe inverosimilmente disarticolate. Sul palco è morta tante volte, Giulietta, Manon, Odette, rialzandosi fiera per accogliere il nostro abbraccio e il lungo applauso che oggi accompagna il suo ultimo inchino.