Cillian Murphy è l'uomo del momento

In quasi 30 anni di lavoro, Cillian Murphy è riuscito a raggiungere un ineccepibile livello artistico fino a diventare uno degli attori più versatili, senza mai farsi troppo notare. Ora, in qualità di candidato all’Oscar, la star di Oppenheimer deve aprire il sipario, almeno un po’
Perch Cillian Murphy agli Oscar con Oppenheimer è ancora l'uomo del momento
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Nell’autunno del 2021, Christopher Nolan sapeva dove andare a trovare Cillian Murphy. Il regista è volato in Irlanda con un documento nel bagaglio a mano che lo rendeva l’equivalente hollywoodiano della cartella di emergenza del presidente degli Stati Uniti d’America. Si trattava della sceneggiatura del suo nuovo film top secret, stampata, a quanto pare, su carta rossa. «Dovrebbe essere a prova di fotocopia», spiega Murphy. Non era sorpreso della visita di persona del regista. I due hanno lavorato insieme in cinque film precedenti e ogni sceneggiatura, sottolinea l’attore, gli è stata recapitata da Nolan o da uno dei suoi familiari. «Una volta è stata sua madre a consegnarmela, un’altra il fratello che è arrivato e dopo tre ore è ripartito. Un po’ serve a mantenere il segreto sulla storia e un po’ è diventata una sorta di rituale. Hanno sempre fatto così, perché smettere ora? In realtà è una consuetudine che apprezzo molto. Mi si addice».

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Murphy si è incontrato con Nolan nella sua stanza d’albergo a Dublino e il regista lo ha lasciato lì a leggere. Ha letto, letto e letto. Tutte le 197 pagine, il genere più raro di sceneggiatura, scritta in prima persona dal punto di vista del personaggio principale del film, J. Robert Oppenheimer. Ogni cosa, tutta l’azione e lo sviluppo, ruotano intorno al fisico statunitense, un gigante della storia mondiale dotato di una mente brillante e psicologicamente complesso. Murphy non aveva mai interpretato una parte da protagonista in un’opera di Nolan, ma si era impegnato a sostenere questo ruolo non appena gliene aveva parlato, prima ancora di avere letto una sola riga del copione. «Mi aveva già chiamato per chiedermi di accettare la parte. E io avevo detto sì, perché a lui dico sempre sì». Pagina dopo pagina, è trascorso l’intero pomeriggio. «Lui non ha un telefono o altro», racconta Murphy. «Ma sapeva istintivamente quando tornare». Nolan sa gestire il tempo, come sempre. Passarono il resto della serata insieme e dopo l’attore è tornato a casa con il treno della ferrovia urbana DART (Dublin Area Rapid Transport) per mettersi al lavoro.

Il risultato è stato uno dei titoli più visti e acclamati del 2023, un blockbuster da quasi un miliardo di dollari su un genio tormentato nonché, a dirla tutta, il padre della bomba atomica. L’interpretazione ha confermato agli occhi dei più quanto era risaputo in fondo da tempo: Cillian Murphy è, o almeno era, uno degli attori più sottovalutati di tutta Hollywood. Lo ha dimostrato nei piccoli ruoli di rilievo degli altri lavori di Nolan. Come protagonista e attore di decine di film e opere teatrali negli ultimi trent’anni. E, naturalmente, in dieci anni e sei stagioni di Peaky Blinders, la serie di successo che lo ha fatto conoscere a livello mondiale. «Alcuni anni fa», ha raccontato Christopher Nolan, «mi sono lasciato scappare quello che probabilmente non va mai detto nel comunicargli, in un momento di sincerità da ubriaco, che è il miglior attore della sua generazione. Ora lo dimostrerà al resto del mondo, in modo che tutti possano rendersene conto».

La ragione per cui Murphy sembrava ancora una specie di oggetto misterioso fino a poco tempo fa, dipende dal fatto che vive, respira e lavora in un luogo lontano dal clamore. È una scelta fortemente voluta. Nel 2015, Murphy è tornato a casa in Irlanda da Londra, una città comunque già lontana da Hollywood, in un tranquillo borgo sul Mare d’Irlanda, non proprio fuori dalla scena, tuttavia più remoto rispetto al raggio d’azione della sua industria.

Una sera di quest’inverno, ho preso la DART e sono sceso lungo la costa dal centro di Dublino a Monkstown per andare a cena con Murphy. Ci siamo incontrati in un ristorante dove, mi ha detto, «ho un tavolo fisso, ci crederesti?». Un’affermazione sottolineata da un vivo orgoglio perché sottolineava il fatto che non aveva un tavolo abituale da nessun’altra parte. Si è comodamente accomodato lì per gran parte della serata, ondeggiando, sporgendosi in avanti, con i capelli disordinati da rocker sulla fronte e i suoi celebri occhi chiari che attraggono i passanti come due paludi di sabbie mobili.

Murphy è sposato da 20 anni con l’artista Yvonne McGuinness e la coppia vive insieme ai due figli adolescenti in riva al mare. In Irlanda, si respira a pieno la vivacità della loro esistenza creativa. Le gallerie d’arte sembrano tutte colme di opere dei membri della sua famiglia. La musica alla radio è curata da amici o da Murphy stesso. Di tanto in tanto si beve una pinta con i propri idoli di attore irlandese, Brendan Gleeson e Stephen Rea.

L’esistenza qui per Murphy è piena di, beh, vera vita. I suoi ragazzi si stanno avvicinando all’età in cui si esce di casa. Ci sono esami. Le faccende domestiche. Commissioni. Lui e il più giovane erano in procinto di partire la mattina seguente per assistere a una partita di calcio a Liverpool. «Avrei voluto portarti altrove per una Guinness», si scusa Murphy, «ma devo guidare per accompagnare mio figlio a una festa stasera». La natura dei suoi impegni sembra piuttosto lontana dalle bolle di sapone che di solito avvolgono gli uomini di punta dell’industria cinematografica.

«Ho un paio di amici che sono attori, ma la maggior parte di loro non lo sono», precisa Murphy. «La maggior parte delle mie conoscenze non è del settore. Amo restarne fuori. Credo che la ricerca di un attore consista solo nel vivere un cazzo di esistenza normale, fare cose quotidiane, avere la possibilità di osservare e appartenere al tanto piacevole flusso dell’umanità. Se non riesci a farlo perché devi passare da un festival cinematografico a un set, a un evento promozionale... voglio dire, questa è la bolla. Non dico che la normalità ti renda migliore o peggiore come attore, ma è un mondo in cui semplicemente non riuscirei a esistere. Trovo sia molto limitante rispetto a quanto puoi sperimentare come essere umano, capisci?».

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Cillian Murphy, almeno durante un fine settimana di quest’inverno, mi è sembrato che avesse scoperto qualcosa di così profondo da farmi trascorrere il mese successivo al nostro incontro senza riuscire a scrollarmi di dosso la sensazione di essere stato in presenza di qualcuno in grado di vivere esattamente nel modo in cui tanti altri attori, artisti e persone dichiarano di voler vivere. Lontano da tutto, eppure richiestissimo. Offre performance degne di un Oscar, ma sembra anche sinceramente felice di poter scomparire per un bel po’, in qualsiasi momento, senza farsi scrupolo. L’energia stabilizzante di casa sembra funzionare come un punto di ancoraggio da cui partire e vagare come artista. «Ha una rara miscela fatta di umiltà e una super carica di creatività», ha dichiarato Emily Blunt. «È solo una persona adorabile e sana di mente. È davvero sano di mente. Eppure, nei ruoli che è riuscito a interpretare c’è una tale carica ferina in lui».

È stato il primo dei suoi amici a fare figli e, di conseguenza, sarà il primo ad avere un nido vuoto. Più tempo per il cinema. (Forse.) Più tempo per la musica. (Sicuramente.) Più tempo per correre di notte, quando le luci che gli scivolano attorno lo fanno sentire come se stesse sfrecciando a maggiore velocità. Ancora più tempo per dormire: «Dormo molto. Riposo 10 ore». Sembra immune dal bisogno di stare nella mischia: fama, moda, cene gratis e tutte quelle offerte allettanti di una certa scena. Molti attori invecchiano abbandonando una simile compulsione, ma lui non è vecchio. Quarantasette anni. All’apice delle proprie capacità è entrato nel fiore degli anni. Non sta uscendo dall’industria, ma fluttua leggero nelle vicinanze, fino a quando non viene chiamato in causa, come spesso capita e come ora accadrà più che mai.

Cerca di fare un film all’anno, preferibilmente non in estate, quando ama trascorrere la maggior parte del proprio tempo sulla costa occidentale dell’Irlanda impegnato a fare nient’altro che trovare nuova musica per il suo programma radiofonico su BBC 6 o portare a spasso il suo labrador nero, di nome Scout. È felicissimo di essere “disoccupato” mentre aspetta l’arrivo del film giusto. «Quando Chris mi ha chiamato, poteva succedere che io fossi impegnato in qualcos’altro», afferma. «E sarebbe stato il peggiore degli scenari». In tal senso, sembra aderire alla sua personale versione dell’adagio di Michael Pollan sul mangiare sano: «Fai dei film. Non troppi. Soprattutto con Christopher Nolan». Immaginate la calma, la sicurezza, la tranquillità di non preoccuparsi di perdere un’opportunità, un pranzo, una festa, un bivio in uno dei centri più spumeggianti di Hollywood, ma di passeggiare lungo rive smeraldine, mentre i giorni si allungano fino alle 10 di sera, nella consapevolezza di essere conosciuti e che alla fine sanno dove trovarvi.

A Monkstown. Probabilmente al suo tavolo. Con lo sguardo attento. Gli occhi chiari. Come un qualsiasi abitante del luogo, ma con la pelle più idratata. A cena, mi ha chiesto solo una volta di omettere dal mio articolo un suo commento su un locale della zona. Sa bene che in una piccola città un’opinione sgradita può essere pericolosa. È un segno evidente che si sente a casa lì. Il suo sogno.

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Nolan aveva notato Murphy per la prima volta nel 2003, in un’immagine promozionale del film 28 giorni dopo apparsa sul San Francisco Chronicle. «Ero alla ricerca di un cast per Batman, a caccia di attori da provinare, e sono rimasto molto colpito dai suoi occhi, dall’aspetto e da tutto ciò che lo riguardava. Volevo saperne di più», mi ha raccontato Nolan. «Quando l’ho incontrato, non mi è sembrato il candidato giusto per Batman, ma ho avvertito una vibrazione: ci sono persone che incontri nella vita con le quali desideri rimanere in contatto, lavorare, cercare di trovare il modo di realizzare qualcosa insieme». Così Nolan lo ha messo davanti alla macchina da presa curioso di vedere come sarebbe andata a finire. «Ha recitato per la prima volta nei panni di Bruce Wayne e la troupe si è fermata a guardare in un modo mai visto prima, e da allora mai più rivisto. C’era un’elettricità che si sprigionava da quell’uomo, un’energia incredibile. Così ho chiamato alcuni dirigenti e sono rimasti colpiti da lui, al punto da permettermi di affidargli il ruolo dello Spaventapasseri. All’epoca i cattivi di Batman erano stati interpretati solo da grandi star, quali Jack Nicholson e Arnold Schwarzenegger. È una prova del suo puro talento».

Batman begins è stato il primo dei suoi ruoli minori nei tre film di Nolan su Batman, a cui sono seguiti Inception e Dunkirk. «Spero di non creargli un dispiacere a dirlo, ma quando ho iniziato a lavorare con lui era puro istinto e l’aspetto tecnico della recitazione passava in sordina. Quando mettevamo letteralmente un segno, lui ci passava sopra», ha rammentato Nolan, ridendo. Nel corso di due decenni, però, «ho visto che è cresciuto tecnicamente, senza intaccare o sminuire in alcun modo la natura istintiva della sua recitazione».

In vista del ruolo di Oppenheimer, Murphy si è preparato per sei mesi a casa dove si è concentrato, innanzitutto, sulla voce e la sua stessa figura. In altre parole, è dimagrito per riprodurre l’immagine pelle e ossa di un fisico di fama mondiale che durante gli anni in cui ha sviluppato la bomba atomica si è nutrito principalmente di Martini e sigarette. Sul set, mentre nel deserto del New Mexico si accumulavano i giorni di riprese, la straordinarietà del lavoro di Murphy ha iniziato a diffondersi tra il cast e la troupe «come un pettegolezzo», ha precisato Nolan. «Ricordo la stessa cosa con Heath Ledger durante le riprese del film Il cavaliere oscuro».

Emily Blunt, nel ruolo della tormentata moglie di Oppenheimer, Kitty, ha avuto modo di conoscere Murphy per la prima volta sul set di Un posto tranquillo II. «Cillian è davvero coinvolgente sul set. Ti trascina in una specie di vortice emotivo», mi ha detto. «Ama le vacanze, ma quando lavora è intensamente concentrato e non socializza affatto. Certamente non durante la lavorazione di Oppenheimer, perché a fine giornata non aveva più nulla da dire».

Matt Damon mi ha raccontato che quando giravano nel mezzo del New Mexico, lui, Emily e il resto del cast andavano a mangiare in un piccolo bar. «Era una specie di tenda da mensa», ha descritto. «Cillian veniva invitato ogni sera, anche se non è mai riuscito a venire».

Murphy tornava nella sua stanza per conservare le energie, prepararsi al giorno dopo e tenere sotto controllo la silhouette di Oppenheimer.

«Ok, è dimagrito, la sera non viene a mangiare ed è infelice», commenta Damon. «Sappiamo che sta facendo il meglio per il film e tutti desideriamo sia il migliore possibile: così facciamo il tifo per lui. Eppure, a cena stanno tutti lì seduti e scuotono la testa dicendo: “Cavolo, è davvero tremendo”».

«L’unica cosa che si concedeva, il suo unico lusso, era di fare un bagno la sera. Insomma, si permetteva letteralmente solo qualche mandorla o qualcosa del genere. Poi si sedeva nella vasca con la sua sceneggiatura e lavorava. Da solo, ogni notte».

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La performance è grandiosa per la concentrata intensità dell’interpretazione, anche se in gran parte non è visibile al pubblico. Il nucleo. Verso il quale tanti sottili elementi permettono di avvicinarci al suo personaggio. Un solo esempio: se si trattasse di una ricostruzione d’epoca, Murphy sottolinea che tutti dovrebbero fumare e indossare cappelli, ma lui è l’unico a farlo. «È enfatico, ma in modo subliminale». Kai Bird, l’autore della monumentale biografia di Oppenheimer dal titolo American Prometheus, su cui si basa il film, ha trascorso una giornata sul set di Los Alamos osservando Murphy recitare la scena in cui il fisico statunitense parla della bomba al suo team di scienziati mentre qualcuno fa cadere qualche biglia in una boccia per pesci e in un bicchiere. «A un certo punto, durante una pausa, si è avvicinato vestito con il suo abito marrone e la cintura turchese e io ho alzato le braccia gridando: “Dottor Oppenheimer, dottor Oppenheimer, sono decenni che aspetto di conoscerla!”», ha raccontato Bird. «Ha saputo catturare in modo particolare la voce e l’intensità di Oppie». (A un certo punto della nostra conversazione, Bird mi ha chiesto una conferma: «Quelli sono i suoi occhi blu, vero? O porta delle lenti?»).

Il film è uscito nel weekend di Barbenheimer, subito dopo l’inizio dello sciopero della SAG-AFTRA. Nonostante si sia goduto un po’ di tempo più rilassato in compagnia di Blunt, Damon e del cast, Murphy si è detto sollevato per avere interrotto la promozione del film. «Penso che sia uno schema superato», sostiene riguardo alle interviste e alle sfilate sul red carpet. Un metodo obsoleto e un peso per gli attori. «Il sistema consiste nel fatto che tutti si annoiano». Basta considerare cosa è accaduto quando c’è stato lo sciopero, riflette. Tutto si è fermato. Il fatto che il film sia andato bene insieme a Barbie, due titoli importanti usciti nello stesso periodo, e la gente sia impazzita, dimostra come non ce ne sia bisogno. «Lo stesso è accaduto con Peaky Blinders. Le prime tre stagioni non hanno avuto pubblicità ed era solo un piccolo programma su BBC Two; ha avuto successo perché le persone ne parlavano tra di loro».

La riluttanza di Murphy in molte interviste è palpabile. «Le cose stanno come ha affermato Joanne Woodward», ci tiene a dirmi «Recitare assomiglia al sesso: fallo, non parlarne». Anche se il suo non è un atteggiamento da burbero, è fondamentalmente incapace di essere falso. In altre parole, reagisce come si potrebbe rispondere alla centesima volta in una settimana alla stessa domanda. Sono curioso di vederlo soffrire durante la sua prima campagna nella corsa agli Oscar, dove rispondere alle stesse domande sulla propria performance è praticamente lo scopo per diversi mesi.

«La gente dice sempre di me: “Ha delle riserve” o “È un intervistato difficile”», si rammarica Murphy. «Non è vero! Mi piace parlare di lavoro, di arte. Quello contro cui lotto e trovo superfluo nonché inutile rispetto a quanto voglio fare è: “Parlami di te...”».

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A ogni modo, su di lui sappiamo che è cresciuto a Cork. Ha frequentato una scuola cattolica più adatta a un certo tipo di ragazzo atletico che a un’anima artistica. «Ho sempre odiato gli sport di squadra, cazzo. Mi piace guardarli. Ma ero pessimo», confessa. Il sistema scolastico classico non andava bene per Murphy, «emotivamente e psicologicamente», dice. «Almeno mi dava qualcosa contro cui lottare».

Suonava in una band di successo con il fratello e si è iscritto a malincuore all’università locale come studente di legge. Mentre frequentava la scuola a Cork, si è imbattuto in una rappresentazione di Arancia meccanica e ha iniziato a frequentare il palcoscenico. Non aveva alcuna formazione, ma ha ottenuto il primo ruolo per cui ha fatto un’audizione in Disco Pigs, opera del commediografo irlandese Enda Walsh che ha girato il Regno Unito, l’Europa e il Canada trasformando la sua vita. «Mi è capitato tutto in un mese, nell’agosto del ‘96: ci hanno offerto un contratto discografico, sono stato bocciato agli esami di legge, ho avuto la parte in Disco Pigs e ho conosciuto mia moglie», racconta. «Ora mi guardo indietro e penso: “Oh, merda”. Allora non ero consapevole di quanto fossero importanti queste cose, il tipo di effetto domino che avrebbero avuto sulla mia esistenza». Murphy in passato ha sostenuto di essere ateo e gli chiedo se una tale coincidenza di eventi lo avesse mai portato a presupporre l’esistenza di un potere superiore in grado di avere ordito tutto. «Ohhh», risponde. «Amo il caos e la casualità. Amo la bellezza dell’inatteso».

Durante quel fine settimana d’inverno, mentre passeggiavamo per Dublino in una sorta di scorribanda joyciana, siamo passati davanti a una libreria. «Questa era la mia libreria preferita quando mi sono trasferito a Dublino. Non avevo soldi e vivevo con mia suocera. Entravo qui e prendevo un caffè al prezzo di 50 centesimi, anche se poi me lo riempivano, capisci? Così, mi sedevo lì tutto il giorno e leggevo le opere. Le rimettevo sugli scaffali prima di tornare a casa dove mia suocera mi aveva preparato la cena», ricorda. «Lo facevo solo per istruirmi, aggiornarmi. Perché non ho frequentato la scuola di teatro; quindi, leggevo tutto ciò che avrei dovuto studiare se ne avessi frequentata una. Chiedevo a tutti gli scrittori e registi di indicarmi le opere da conoscere».

«Il teatro è la chiave di Cillian», mi ha assicurato il regista Danny Boyle. «Stranamente, visto che è un attore cinematografico così straordinario». Si tratta della capacità, datagli dal teatro, di percorrere la grande distanza di un arco caratteriale estremo. «Tutti parlano dei suoi occhi sognanti alla Paul Newman. Naturalmente va a suo vantaggio, perché dietro c’è la sua capacità, la forza di un’energia vulcanica». L’altra chiave di Cillian, ha aggiunto Boyle, deriva dalla sua natura di irlandese: «È uno dei maggiori esponenti di questa grande cultura e la patria lo nutre costantemente». Boyle ha scritturato Murphy in 28 giorni dopo del 2002, il primo film che lo ha portato alla notorietà. Il lavoro da cui deriva, a suo modo, il cammino verso la collaborazione con Nolan passando dallo stesso Boyle per Sunshine del 2007. «Quando abbiamo girato 28 giorni dopo, lui era davvero agli inizi», ha osservato Boyle. «Poi è tornato per Sunshine, ed era già un attore completo».

Negli ultimi anni, Murphy ha lavorato spesso con il risultato che alcuni film sono più riusciti di altri. «Molti non li ho visti», dichiara. «So che Johnny Depp lo dice sempre, ma in realtà è vero. In genere non ho visto quelli di cui ho sentito dire che non sono buoni».
Viene naturale chiedergli se ha visto Oppenheimer. «Sì, ho visto Oppenheimer...», risponde alzando gli occhi.

Una volta terminato il film, Murphy, sua moglie e il figlio minore sono andati a Los Angeles a vederlo per la prima volta nella sala di proiezione privata di Nolan. «È piuttosto bello...» ha dichiarato all’occasione cercando di bilanciare l’ovvio entusiasmo con la volontà di non svelare troppo. «Sai, lì fa vedere le copie dei film. L’audio è straordinario». Quanti posti a sedere? «Direi, all’incirca, 50?». Perciò Murphy ha visto il suo film, nell’home theater molto probabilmente più adatto al mondo.

Nell’estate del 2005, appena un paio di mesi dopo l’uscita di Batman Begins, Murphy è tornato nelle sale con Red Eye di Wes Craven. Era la stagione dei cattivi. Le due parti, a distanza ravvicinata, parvero confluire nella creazione di un’unica sensazione: quel tizio mi fa venire i brividi. Se chiediamo alla gente cosa pensa nell’immaginare Murphy, sono rimasto scioccato dall’impronta lasciata da Red Eye su un americano di una certa età.

«Oh, lo so, è pazzesco!». Commenta a riguardo Murphy. «Penso sia la dualità della natura umana. È il motivo principale per cui ho voluto giocarci. La doppia natura. Il bravo ragazzo e il cattivo in un’unica persona. La sola ragione che mi attraeva era la possibilità di fare quella…» schiocca le dita, «quella svolta, comprendi?».

«Dicono che le persone più gentili a volte siano i migliori cattivi», ha affermato Rachel McAdams nel rievocare il periodo trascorso insieme a Murphy sull’angusto set aereo di Red Eye. «Ascoltavamo musica e chiacchieravamo mentre tentavamo di risolvere il cruciverba che lui portava ogni giorno per lasciarmi gentilmente partecipare... Credo che la domanda numero uno su Cillian all’epoca fosse se portasse o meno le lenti a contatto».

«Amo Rachel McAdams e ci siamo divertiti a realizzarlo», aggiunge Murphy. «Ma non credo sia una grande pellicola. È un buon film di serie B».

Nello stesso periodo, ha recitato nel film Il vento che accarezza l’erba di Ken Loach, una delle migliori opere del regista britannico, di cui Murphy è particolarmente orgoglioso. Un’epopea storica che racconta la vicenda di un gruppo di amici irlandesi impegnati a combattere prima contro gli inglesi nella guerra d’indipendenza nazionale e poi l’uno contro l’altro nella guerra civile scoppiata in Irlanda. Il film è intenso, straziante, implacabile e coinvolgente. Murphy ha un volto che si adatta bene a qualsiasi decennio del XX secolo. Arriva al massimo della sua carica espressiva sullo sfondo dei decenni ‘20, ‘30 e ‘40, ed è uno dei fattori più convincenti di Oppenheimer. Matt Damon, bene o male, sembra Matt Damon. Emily Blunt, bene o male, sembra Emily Blunt. Mentre Cillian Murphy sembra uno scienziato del 1945.

Negli ultimi anni i suoi registi hanno sfruttato in diversi modi questa sua peculiarità. In Anthropoid (2016), gli è stato affidato il ruolo di un combattente della resistenza cecoslovacca nella Praga occupata dai nazisti. In Free Fire (2016), ha vestito i panni di un membro dell’IRA coinvolto in un affare di armi andato terribilmente storto. In Dunkirk (2017), ha onorato la parte di un tremolante soldato britannico affetto da PTSD, stress post-traumatico. E, naturalmente, in Peaky Blinders (2013-2022), è un eroe della Prima Guerra Mondiale diventato gangster nella Birmingham degli anni Venti. Con quel volto, può rappresentare tutti i lati della medaglia dei conflitti dell’Europa pre e postbellica. «Cillian se la ride del fatto che interpreta perennemente persone traumatizzate», ha rivelato Emily Blunt. «Ci deve essere qualcosa nel suo viso che invoglia a proporgli questo tipo di offerte».

Nel primo fotogramma in cui compare nel film Anthropoid, un raggio di luna gli illumina lo zigomo come se fosse un piano di alabastro, ed è immediato chiedersi se ci troviamo di fronte a un nazista o a un membro della resistenza. È il buono, il cattivo, o entrambi? Torna la doppia natura. Razionalità e istinto. Dualità. La tensione interiore tra due opposti.

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A Dublino abbiamo camminato lungo strade affollate, sotto un generoso sole invernale e chiassosi gabbiani. Siamo stati abbordati dai fan a un ritmo impressionante, ma anche da sorelle di amici. «Non sono una stalker...», ci ha detto una, educatamente. «Oh, ciao, Oona!». Gli ho chiesto se avesse avvertito un palese cambiamento nella sua vita rispetto alla scorsa estate, visto che un miliardo di dollari di persone lo hanno visto praticamente in ogni fotogramma di uno dei più grandi film di tutti i tempi. «A me sembra sempre che le cose vadano a ondate», sostiene. «Quando Peaky era al suo apice, si sentiva un’energia diversa e andavo in giro un po’ come faccio adesso, finché si stabilizza di nuovo. È una situazione che si presenta a ondate. Nessun film resta al cinema per anni e la gente se ne dimentica. Perciò, le cose vanno così. Tu le affronti e poi tutto torna alla normalità».

Con tutto il rispetto per il seguito di Peaky, sembra che l’ultimo film abbia avuto una risonanza particolarmente vasta. «Sì», ammette ridendo. «Però, ti voglio sorprendere: Peaky è ancora la cosa che più mi viene chiesta al mondo».

Proprio in quel momento, Murphy viene avvicinato da un fan in strada per un selfie. «Oh, non faccio foto», spiega a un ragazzo deluso che tuttavia ottiene 20 secondi di tempo per chiacchierare con lui. «Quando ho iniziato a farlo», dice «la mia vita è cambiata. Penso solo sia meglio salutare e fare un po’ di conversazione. Lo dico a molte persone, sai, agli amici attori che rispondono: “Mi sento così a disagio”. Non è necessario avere un archivio fotografico di tutti i posti in cui si è stati durante la giornata».

«Si manifesta un particolare tipo di curiosità e viva meraviglia nei confronti di Cillian», mi ha detto Emily Blunt. «Penso che agli occhi di una persona così riservata come lui, questo livello di attrazione sia, come dire, terrificante. Se esiste qualcuno che non è fatto per la fama, quello è Cillian».

In attesa di un eventuale film di Peaky Blinders, chiedo a Murphy quale sia lo stato di avanzamento dei lavori: «Non c’è nessuno stato, per ora; quindi, non ho aggiornamenti. Ma ho più volte ripetuto che resto aperto a una simile eventualità nel caso ci fosse un’altra storia. Mi piace come è finita la serie. Amo la sua ambiguità e sono davvero fiero di quanto abbiamo fatto. Comunque, sono sempre pronto ad accettare di lavorare su un bel copione».

Siamo passati accanto a un gruppo di giovani, in abiti scuri e tacchi, ridotti veramente male. «Guarda questi ragazzi, sono reduci dalla notte precedente», osserva Murphy, sorridendo. Gli chiedo se a Dublino e a Londra abbia mai fatto baldoria. «Cosa posso dire, è capitato, ma con i miei amici. Non ho mai fatto parte di una scena o frequentato club di attori. Non sono mai andato alle premiere... L’idea di andare a una prima che non sia la tua, mi sembra...».

Davanti al Trinity College, colgo al volo l’occasione di parlare della serie irlandese di successo Normal People e della sua star irlandese Paul Mescal. «È un vero e proprio fenomeno. Lui è un’autentica star del cinema. Non se ne vedono spesso. Ma per fortuna», prosegue Murphy con un leggero e raro tocco di orgoglio e spavalderia, «sembrano provenire soprattutto dall’Irlanda».

«A quanto pare», aggiunge, «è un buon momento per essere un attore irlandese».

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Ci fermiamo alla Kerlin Gallery per vedere la mostra della cognata, Ailbhe Ní Bhriain. Lei e la moglie di Murphy erano amiche ai tempi della scuola di specializzazione a Londra e suo fratello l’ha conosciuta durante una visita a Cillian. È questa la sua scena. Cammina ammirando i pezzi di cui aveva sentito parlare durante le riunioni di famiglia, ma che non aveva ancora visto di persona.

«Quest’opera mi attrae a prima vista», dice, «perché si sente che affronta grandi temi, e per me è una qualità importante. Non cerco il puro intrattenimento. Mi piace molto la sensazione di confusione provocata da un’opera capace di muoverti qualcosa dentro. Non nel senso del genere horror, ma in quello psicologico ed esistenziale. È la caratteristica che amo in tutti i lavori a cui tengo e la cerco in quelli da realizzare».

Murphy ha prodotto le ultime tre stagioni di Peaky Blinders, ma era alla ricerca di un primo film da produrre. Si è assicurato i diritti di Small Things Like These (NdR: tradotto in Italia con il titolo: Piccole cose da nulla) di Claire Keegan, finalista al Booker Prize. Una sera sul set di Oppenheimer, mentre erano seduti nel deserto, Damon gli ha parlato della nuova società fondata insieme a Ben Affleck e non ancora annunciata, la Artists Equity, il cui nuovo modello finanziario si basa sulla condivisione dei profitti con la troupe. Murphy ha inviato loro il libro e alla fine la Artists Equity ha finanziato il film. «Di solito, si cerca di mettere insieme tante entità diverse, e poi si hanno diversi punti di vista sull’editing finale», spiega Murphy. «Qui c’erano solo loro».

Small Things Like These racconta di un uomo comune della stessa età di Murphy in una piccola città della contea di Wexford che, un Natale, si imbatte in un terribile segreto nascosto nel convento locale. Si tratta delle cosiddette Magdalene Laundries (lavanderie della Maddalena) che, dal XVIII secolo agli anni Novanta, hanno tenuto prigioniere migliaia di ragazze e donne nelle case di lavoro della Chiesa.

Ho chiesto a Murphy se, grazie al suo nuovo potere, fosse importante per lui raccontare storie irlandesi. Non particolarmente, mi ha risposto. L’unico criterio resta: scegliere la storia migliore. «Tuttavia», sottolinea, «è un ottimo momento per affrontare questa vicenda, perché abbiamo preso le distanze da quanto è successo con la Chiesa e tutto il resto. Anche se non credo che l’abbiamo ancora trattata a fondo. Così, se si riuscisse a creare qualcosa in grado di essere divertente, commovente e allo stesso tempo stimolante al punto da fare emergere qualche domanda su chi siamo come nazione, su chi eravamo e quanto lontano siamo arrivati, allora sarebbe fantastico. Tali domande dovrebbero comunque sorgere dopo che si è andati a trascorrere una serata ragionevolmente divertente al cinema».

Murphy a un certo punto scherza sul fatto di avere trascorso lo sciopero degli attori a casa «mangiando formaggio», ma in realtà lo ha passato a montare Small Things e a supervisionare «tutti i meravigliosi interventi che noi attori non riusciamo mai a vedere». (La sua società di produzione, la Big Things Films, si sarebbe dovuta chiamare Small Things Films, mi ha riferito, se non fosse che Small Things suggerisce «una mancanza di ambizione, forse».) Small Things è stato presentato in anteprima al Festival Internazionale del Cinema di Berlino 2024.

Un film all’anno, controllo, sobrietà, una mano ferma sul volante.

Murphy ha una naturale propensione a uno stile di vita analogico in perfetta sintonia con le abitudini di Nolan che non usa la posta elettronica e non possiede uno smartphone. «Aspiro a quella vita», dice Murphy. «Stavo solo eliminando varie cose dal mio telefono, ma devo tenere le app per ascoltare e identificare la musica».

«Ho ancora tutti i miei CD, DVD e Blu-Ray», rivela. «Non posso sbarazzarmene. Mi sono liberato delle mie VHS, però. Le ho lasciate per strada perché nessuno le voleva. Sono andato a portarle in una biblioteca e ho detto: “Guardate questa preziosa collezione di film d’arte!” e loro mi hanno risposto: “No, grazie, amico...”».

Ero curioso di sapere se avesse visto il TikTok virale di Nolan che mostrava a uno zoomer come proiettare al meglio Oppenheimer. Si è messo a ridere. «Me l’ha fatto vedere mio figlio. Uno scontro di culture».

Lavorare al fianco di Nolan può farti vivere la tanto desiderata evasione dalla vita moderna.
«Quando sono sul set di Chris, ho la sensazione di trovarmi in un laboratorio privato e intimo», afferma. «Anche se lavora a ritmi elevatissimi, c’è sempre spazio per la curiosità e la scoperta. Questo è ciò che dovrebbe essere fare arte, capisci? Non ci sono telefoni, ma nemmeno annunci: lo sanno tutti e basta. E non ci sono sedie. Perché lui non si siede. A volte un set cinematografico assomiglia a un picnic. Tutti hanno le loro sedie e i loro snack, si mandano messaggi e si mostrano l’un l’altro, sai, emoji o altro, meme, che io in realtà conosco», dice, riferendosi velatamente a un meme su Cillian Murphy che non sa cosa sia un meme. «Ma perché?»

Sai cosa farà Nolan adesso? Chiedo. «Noooo. Tieni conto che non sapevo stesse scrivendo Oppenheimer. Non rimaniamo in contatto in questo modo». È come Mission: Impossible. Portare a termine insieme un’impresa difficile e poi interrompere la comunicazione. «Chris è la persona più intelligente che abbia mai conosciuto. Non solo per le questioni di regia, ma per tutto il resto».

Nolan mi aveva riferito di aver voluto dare a Murphy un ruolo che lo avrebbe perseguitato per sempre, una parte da cui avrebbe passato il resto della sua carriera per cercare di uscirne. «E», ha detto, «credo di esserci riuscito». Chiedo una conferma a Murphy che mi risponde con una battuta: «C’è una grande quantità di ruoli che credo la gente conosca». Probabilmente è il suo modesto modo di dire: ne ho anche altri.

Murphy mi ha detto di aver sentito «uno dei Sydney», Lumet o Pollack, dire che ci vogliono 30 anni per fare un attore. Lui ci credeva. «Io ho 27 anni di carriera», specifica. «Quindi ci sono vicino».

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Dopo che Nolan ha consegnato a Murphy la sceneggiatura di Oppenheimer e lo ha lasciato solo a leggere in quella stanza d’albergo di Dublino, si è recato alla Hugh Lane Gallery e, più precisamente, nello studio di Francis Bacon, una perfetta ricostruzione del disordinatissimo studio londinese in cui il pittore di origine irlandese ha vissuto e lavorato durante gran parte della propria esistenza. Murphy e Nolan condividono l’amore verso Bacon, figura imponente del XX secolo, nato nel suo primo decennio e morto nell’ultimo. Oltre alla ricostruzione dello studio, il museo possiede diversi dipinti di Bacon, alcuni finiti, altri incompleti. In tutti i casi, però, i ritratti delle persone, figure distorte in modo bizzarro, sono stati resi in modo crudo. Mai rappresentazioni compiute. Mai semplici imitazioni. Bensì l’interpretazione dell’artista di un altro individuo, riproposto attraverso un’immagine spoglia. Si può intuire cosa può interessare sia al regista di un film biografico sia al suo protagonista.

In quel fine settimana d’inverno, ho fatto lo stesso tragitto di Nolan lungo il fiume Liffey, sono passato accanto a un poster di Oppenheimer esposto in una vetrina di Tower Records, fino ad arrivare al Garden of Remembrance (giardino dedicato a tutti coloro che hanno dato la vita per la libertà irlandese), e ho incontrato Murphy al museo. Indossava un giubbotto nero, una felpa dello stesso colore con cappuccio, un paio di Ray-Ban neri dall’effetto “starburst” che fanno le lenti delle star del cinema quando sono bombardate dai flash su un red carpet. Appena entrati se li è tolti e ha preso una direzione a lui ben nota per tornare da Bacon. «La maggior parte delle persone non conosce questo luogo», considera. «È una specie di piccolo segreto. Ma io vengo qui solo se ho del tempo libero, quando mi trovo in città».

Abbiamo ammirato Bacon e parlato della sua biografia uscita nel 2021. «Amo l’opera», mi spiega, «ma anche la vita. Quella sorta di accanimento unico che aveva come artista». Gli chiedo se legge le biografie degli attori. «Agli inizi», replica. «Leggendole, però, mi preoccupo sempre, perché io non riesco a ricordare nemmeno cosa ho fatto la settimana scorsa... Spesso mi chiedo se non sia una sorta di mitizzazione dell’ego».

Abbiamo sbirciato nello studio del pittore, ogni mozzicone di sigaretta e cassa di champagne archiviati e messi al loro posto. «Il caos per me genera immagini», aveva detto Bacon.

Hai una stanza in casa tua che assomiglia a questa? Domando. Murphy si mette a ridere. «No, ho una stanza per uomini, una caverna da uomo. Ma è incredibilmente ordinata».

In un’altra sala del museo, ci siamo seduti davanti a uno speciale televisivo britannico su Bacon del 1985, un’intervista di un’ora con il presentatore Melvyn Bragg, in cui il grande pittore sprizza carisma e saggezza nelle sue risposte concise alle più grandi domande che si possano formulare a un artista, il tutto indossando una perfetta giacca di pelle nera. Restiamo seduti in silenzio, fino a quando Murphy non interviene: «È un po’ ipnotico, non è vero?».

Prima del mio arrivo a Dublino, Nolan mi aveva suggerito di ricercare un senso nella carriera di Murphy pensando a lui più come a un artista che a un attore, come a un pittore o a un musicista. La sua filmografia non è una linea ascendente o discendente, ma è piena di periodi distinti di sviluppo. Ciò aiuta a spiegare l’approccio al lavoro. La pazienza e il rigore. La chiarezza del punto di vista. Un lento processo di accumulo anziché esplosione e volatilità. Senza farsi scuotere dalle cose che fanno oscillare la barca di molti attori. È la chiarezza. L’autenticità. La risposta alla domanda: quando vieni sottoposto a ripetute prove, cosa ti succede? Chi diventi? Ecco un uomo di 47 anni, in grado di interpretare un ventisettenne usando la giusta illuminazione e un sessantasettenne con l’opportuno trucco, che probabilmente vincerà l’Oscar come miglior attore, ma la cui mente non potrebbe essere più lontana dal chiacchiericcio, dal rumore e dal clamore del suo settore. A un certo punto, gli chiedo se si sente particolarmente adatto a interpretare ruoli di mezza età, se Oppenheimer è il primo film di quello che potrebbe essere il periodo più forte della sua carriera. «In realtà, non lo so», risponde. «Non ci ho ancora pensato».

Ecco un’altra cosa che Murphy sembra avere capito, inconsciamente o meno. Quasi tutte le religioni, gli allenatori, i guru e gli amici illuminati tendono a offrire lo stesso consiglio: non perdersi nel passato e non fissarsi sul futuro per concentrare tutto te stesso sui quindici centimetri davanti al naso e sul presente che si può controllare. «Sono davvero, come dire, patologicamente insensibile alle cose», afferma. «Vado avanti molto velocemente». Il passato non è un problema perché non riesce a ricordarlo o a romanzarlo. Il futuro neppure, perché non gli piace fare progetti troppo in là nel tempo. E così restano il film all’orizzonte, la canzone alla radio o il quadro alla parete. In questo senso è un autentico presentista. O, meno astrattamente, solo un buon ascoltatore, un buon osservatore, un buon partner di scena, una buona persona con cui cenare.

Lì, nel museo, restiamo seduti a guardare l’intervista a Bacon come se non ci fosse un altro posto dove stare (perché in realtà non c’era) e non ci fosse nient’altro a cui pensare (cosa c’è di più interessante di come si può vivere la vita di un artista?).

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Murphy rompe il silenzio. «Hai mai sentito la teoria di Brian Eno? Quella dei contadini e dei cowboy? Ci sono due tipi di artisti: i contadini e i cowboy. I contadini, come ad esempio nel suo studio», dice gesticolando verso lo schermo, «fanno sempre la stessa cosa, affinando, affinando e affinando. I cowboy sono come i cercatori d’oro che partono e fanno un lavoro folle. Eno si colloca nella seconda categoria, perché è un innovatore, sia nella musica sia nella produzione e in tutto il resto. O qualcuno come Bowie che reinventa di continuo. Nessuno dei due è migliore, è solo un modo diverso di lavorare». In quale dei due casi rientra? Gli chiedo. «Sicuramente il cowboy, penso. Anche se ci sono attori che interpretano parti sempre molto simili, versioni di sé stessi in continuazione. Anche in questo caso, non credo che nessuno dei due sia migliore».

A volte un attore finisce nell’altra categoria per caso, quando il suo personaggio pubblico si interseca o si sovrappone al lavoro? Domando. «Forse. Sì, sono sicuro che sia così. Sì». Si rimette a sedere e si immerge di nuovo nel film. Ride per alcune cose che Bacon ha detto e fatto. «Penso che alcune sue affermazioni possano adattarsi bene al nostro lavoro come la frase “Il compito dell’artista è sempre quello di approfondire il mistero”». Film provocatori. Spettacoli provocatori. Nessuna risposta facile, ma forse qualche nuova domanda.
Non regalare tutto. Non rinunciare nemmeno a quasi tutto. Fare un passo indietro. Siate chiari. Con voi stessi, ma non necessariamente con gli altri. Lascia che l’onda della fama passi. Vivi in riva al mare.Ripete ancora una volta: «Approfondire il mistero. È così, non è vero?»

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Articolo originariamente pubblicato su GQ US



CREDITI DI PRODUZIONE:

Foto di Gregory Harris
Styling George Cortina
Hair Teddy Charles @ Nevermind Agency
Skincare Holly Silius con prodotti Lyma & YSL Beauty
Set Design Colin Donahue per Owl and the Elephant Agency
Produzione Paul Preiss @ Preiss Creative